Tutti i revival dovrebbero essere come Cobra Kai3 min di lettura —

Tutti i revival dovrebbero essere come Cobra Kai — 3 min di lettura —

Quando si parla di revival, sequel, reboot e spin-off, tendiamo sempre a storcere il naso ancor prima di vederli sullo schermo. Il motivo? Sono veramente rari i casi in cui un’opera derivata riesca a reggere il confronto con la serie o il film originale: salvo rare eccezioni (Angel e The Originals, ad esempio) dalla nuova trilogia di Star Wars al revival di Veronica Mars, da Una mamma per amica – di nuovo insieme a Heroes: reborn, di esempi di sequel non proprio riuscitissimi ce ne sono a bizzeffe.

In un mare di delusioni si erge Cobra Kai, figlio della saga cult degli anni Ottanta, The Karate Kid.

Fin dal pilot, la serie si è rivelata un esperimento vincente in quanto è stata in grado di rievocare un classico in maniera molto intelligente, di trovare il giusto equilibrio tra l’essere un’operazione puramente nostalgica e il tentativo di dare profondità a dei film che, figli dei loro anni, presentavano trame e personaggi stereotipati e macchiettistici.

Il legame con The Karate Kid lo percepiamo attraverso quei rimandi alla saga con protagonista Ralph Macchio, ai Bonsai, al “metti la cera e togli la cera”, attraverso la musica, i costumi e le location così squisitamente anni Ottanta, ma Cobra Kai mette in chiaro fin dall’inizio di avere una propria identità: stavolta, infatti, non seguiamo la storia dal punto di vista dell’eroe Daniel LaRusso, ma da quello del bullo del dojo che dà il titolo alla serie: Johnny Lawrence, che ritroviamo in una veste inedita rispetto al primo The Karate Kid. I capelli biondi ci sono ancora, ma Johnny è un uomo profondamente cambiato: beve, non ha un lavoro stabile, non un rapporto col figlio nato da un matrimonio disastroso, vive completamente isolato dal mondo e come cristallizzato nel tempo, nell’unico momento di gloria che ha caratterizzato la sua vita, quando era il campione del Cobra Kai e si sentiva per la prima volta un vincente.

Ma con l’arrivo di Miguel nella sua vita, a Johnny viene data una seconda possibilità, che lo porta ad allontanarsi da quel “colpire per primi, colpire forte, senza pietà” ripetuto come un mantra dal suo sensei e a cercare di trovare il giusto equilibrio per diventare una guida per tutti coloro che, come lui, sono stati delle vittime a scuola o tra le mura di casa.

Questa è solo pittura nera su una parete bianca. Ma la vita non è bianca o nera. Il più delle volte è grigia. Ed è in queste aree grigie che il Cobra Kai di Johnny Lawrence a volte mostra pietà.

A Johnny, Daniel e in generale a tutti i protagonisti della serie, viene finalmente data un’anima. Non ci troviamo più di fronte a dei cliché ambulanti, al bravo ragazzo che ha sempre la risposta giusta e al bullo che non ha possibilità di redenzione, ma a personaggi a tutto tondo, dalla morale ambigua, che commettono errori ma sono anche capaci di fare ammenda. Non solo gli adulti, ma anche le nuove reclute presentano una caratterizzazione tutt’altro che stereotipata: pieni di rabbia, di fragilità e inizialmente senza una guida, Miguel, Robbie, Hawk e compagni non sono delle semplici proiezioni dei personaggi della saga cinematografica, ma rappresentano ognuno una differente sfumatura di grigio.

Pur essendo una serie leggera con molti momenti divertenti, Cobra Kai ha costruito dei personaggi tridimensionali, umani, con cui si entra immediatamente in empatia, e che faranno apprezzare la serie non solo ai nostalgici di The Karate Kid, ma anche a chi non è mai stato un grande fan della saga.

Ti è piaciuto questo post?

Clicca per votare!

Media dei voti 5 / 5. Voti totali: 2

Ancora nessun voto. Vota per primo!

Seguici sui social!

Pubblicato da Manuela Greco

Classe ’92, appassionata di serie TV, film, libri, anime, manga e di tutto ciò che è nerd da che ne ha memoria.

Una risposta a “Tutti i revival dovrebbero essere come Cobra Kai3 min di lettura —

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *