8 serie in cui il lieto fine è nella morte (e perché è un modello da evitare)26 min di lettura —

8 serie in cui il lieto fine è nella morte (e perché è un modello da evitare) — 26 min di lettura —

Non tutte le serie sono come Six Feet Under, anche se ci provano. Non tutti gli show sono capaci di affrontare il tema della morte, spiegare il senso della vita, domandarsi cosa ci sia dopo e se in effetti qualcosa davvero c’è. Sorry for your Loss ha accolto la lezione di Six Feet Under e ha raccontato le difficoltà di chi tenta di sopravvivere dopo la morte di una persona amata. Così come lo sta facendo il più recente After Life con Ricky Gervais.

Midnight Mass ha cercato di rispondere alla domanda mettendo a confronto due visioni antitetiche del post mortem – quella cristiana, incarnata dal personaggio di Erin, e una più razionale, espressa per mezzo di Riley – per poi proporci una sintesi tra le due attraverso il monologo con cui si conclude lo show.

Alcune serie televisive, poi, soprattutto quelle a tematica sovrannaturale, hanno spesso tentato di rispondere a questa domanda mostrandoci che una vita ultraterrena esiste. Ma non tutte si sono dimostrate all’altezza del compito.

Molte – troppe – hanno tentato malamente di imitare Lost, ma hanno finito per far passare il messaggio che la felicità si trovi solo nella morte.

La morte, il sacrificio e il ruolo attivo del protagonista

Uccidere personaggi profondamente traumatizzati in favore dello shock value erede di Game of Thrones, soprattutto quando questi personaggi hanno lottato duramente per guarire e ottenere un briciolo di meritata felicità, ha promosso la retorica per cui il lieto fine esiste per chi soffre in vita solo nella morte.

Il problema non è la morte di un personaggio in sé – che a volte è l’unica conclusione possibile per gli eroi e antieroi tragici delle storie che guardiamo -, ma l’idea che la pace nella morte sia una sorta di ricompensa quando non lo è.

E se proprio il destino del nostro protagonista deve essere la morte nella mente di uno o più sceneggiatori, che abbia per lo meno un ruolo attivo nel proprio destino!

Quando scriviamo della morte di un personaggio, dobbiamo fare in modo che abbia uno scopo nella narrazione. Certo, non è ciò che accade nella vita di tutti giorni, la morte può capitare all’improvviso e non importa se abbiamo realizzato i nostri obiettivi. Ma in una storia creata a fini di intrattenimento, tutto deve avere un senso, anche – anzi, soprattutto! – la morte, in special modo se è la morte di uno dei protagonisti.

Non c’è una regola precisa, ma la morte deve avere conseguenze sulla trama e sui personaggi. Deve intrecciarsi a ciò che succede dopo, anche se accade nel series finale di uno show.

Naturalmente, vale la pena sottolinearlo, le cose cambiano se si tratta di personaggi secondari o di contorno.

Personaggi minori o addirittura senza nome che muoiono all’inizio di un film horror, per esempio, servono a informarci dell’esistenza di un mostro, per farci sapere che il male esiste. Fanno da input alla narrazione, danno avvio al dispiegarsi degli eventi e spingono il protagonista ad agire per cambiare le cose. In casi come questi, quindi, la morte è parte della trama, ma non ha un significato più profondo.

Ci sono personaggi secondari la cui morte è fondamentale alla trama, dà all’eroe una ragione per continuare a lottare o muove ulteriormente gli eventi. Un esempio è la morte di Oberyn Martell ne Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco. La sua dipartita serve non solo per mettere in modo il piano di Doran a Dorne, ma anche per far sì che Tyrion sia costretto a lasciare Westeros e viaggi per incontrare Daenerys Targaryen. Un secondo esempio è la morte di Jenny Calendar in Buffy: è necessaria affinché la Cacciatrice sia risoluta nella sua decisione di uccidere Angel. È il suo movente finale.

Le morti di personaggi secondari, o minori addirittura, hanno un peso nella narrazione, ma ciò che conta è l’impatto che hanno sui personaggi principali.

Per i protagonisti è diverso. Devono avere un ruolo attivo nella loro morte per poter mantenere il loro status. La loro morte non può semplicemente essere accidentale né può essere scritta nell’episodio al solo scopo di sovvertire le aspettative dei telespettatori. Deve avere a che fare con lo sviluppo dei personaggi, deve essere parte del loro viaggio, deve poterci dire qualcosa di loro che non sapevamo ancora.

Non può dipendere solamente dalla volontà di raccontare un finale tragico. Non c’è alcun valore intrinseco nella tragedia. In ogni narrazione, la tragedia ha senso quando non ha le sembianze di un semplice capriccio, e troppo spesso in TV è così.

La morte di Buffy nel finale della quinta stagione è un classico esempio di un protagonista che muore. Ma la Cacciatrice ha potere sulla propria morte. Sceglie di sacrificare sé stessa per evitare che sia Dawn a compiere quel sacrificio e salvare così il mondo.

L’intero Whedonverse è ricco di esempi simili. Spike si sacrifica nel gran finale di Buffy. Doyle lo fa nella prima metà della stagione di debutto di Angel. Darla si uccide perché suo figlio possa nascere. Wesley si sacrifica nel finale di Angel. Topher salva il mondo in Dollhouse dando la sua stessa vita.

Lo stesso può dirsi della decisione di Harry di affrontare Voldemort nella Foresta Proibita. Il protagonista di Harry Potter è pronto ad affrontare la morte, anche se alla fine a morire è solo l’horcrux che vive in lui.

Sam salta nell’abisso insieme a Lucifero nel finale della quinta stagione di Supernatural, trasformandosi in un eroe. Se la sua morte fosse stata permanente nella seconda stagione, invece, non avrebbe avuto lo stesso impatto sulla storia e sull’evoluzione stessa del personaggio, perché Sam non avrebbe avuto in tal caso alcun potere sul proprio destino. Nella seconda stagione di Supernatural, la morte di Sam è qualcosa che finisce per ripercuotersi su Dean e funziona perché non è definitiva e porta avanti la trama, ma non avrebbe funzionato come conclusione del viaggio dell’eroe di Sam, risultando insoddisfacente.

Charlie e Jack di Lost sacrificano le loro vite rispettivamente nella terza e sesta stagione per permettere ai compagni di sopravvivere e per salvare l’isola. Lo fa il Nono Dottore per salvare Rose che ha assorbito l’energia del vortice del tempo. Lo fa il Decimo per salvare Wildfred.

Ma persino il sacrificio non può limitarsi a essere una decisione autonoma del protagonista, deve anche avere un senso nell’economia della narrazione.

A cosa serve questo lungo prologo? A introdurre 8 serie che ci hanno fatto credere che il lieto fine esista solo nella morte.

Le serie in cui il lieto fine è nella morte

1. Le terrificanti avventure di Sabrina

Definire controverso il finale de Le terrificanti avventure di Sabrina sarebbe un eufemismo, ma con un’intera stagione completamente fuori posto non dovrebbe sorprenderci.

Nelle battute finali, Roberto Aguirre-Sacasa ha scelto di uccidere la sua protagonista. E se già questa scelta rientra nell’ambito della scrittura pigra e poco creativa in uno show sovrannaturale in cui la morte non è mai stata un ostacolo insuperabile, peggio è quanto accade dopo.

Perché se la prematura dipartita di Sabrina (a soli diciassette anni) rientra nell’ambito del sacrificio, rende la sua morte eroica e ben si sposa con il complesso da salvatrice della strega, lo stesso non può dirsi per il finale riservato a Nick, che finisce per glorificare il suicidio.

Non che fosse nell’intenzione degli scrittori farlo, ma inevitabilmente, quando Nicholas Scratch decide di togliersi la vita per poter ricongiungersi con la sua amata, Le terrificanti avventure di Sabrina si addentra in un territorio pericoloso. Il lieto fine dei due giovanissimi è quasi Shakespeariano, è tragico.

Nick e Sabrina trovano serenità nella morte che qui rappresenta l’unico mezzo per poter restare insieme per sempre, l’unica soluzione per coronare un sogno d’amore.

Quando Nick raggiunge Sabrina nello Sweet Hereafter (e anche qui, il nome dolce è accostato in maniera inquietante all’idea di morte), la sua decisione di porre fine alla sua vita è relegata a un battuta brevissima, che dura un battito di ciglia e tenta di essere nascosta dalla reazione di Sabrina, colpita dal gesto romantico del ragazzo.

A rendere ancor più romantica l’idea della morte in questo caso, c’è l’immagine che inevitabilmente associamo alla scena: di fronte a noi ci sono due ragazzi felici, in salute, seduti su una panchina a baciarsi. Sembra quasi che non siano neppure morti, ma che vivano ancora, nella loro forma corporea addirittura, in un altro regno.

2. The O.C.

Marissa Cooper, Coop per gli amici, è sempre stata un personaggio che ha diviso profondamente il pubblico. C’era chi la amava e c’era chi la detestava, ma tutti, indistintamente, abbiamo pianto la sua tragica morte nel finale della terza, controversa stagione di The O.C.

Descrivere Marissa non è facile, perché è un personaggio complesso e sfaccettato, fatto di luci, ombre, tante zone grigie. Perché la vita non è stata buona con Marissa Cooper. Pur essendo nata in una famiglia ricca e privilegiata, pur essendo l’ape regina del liceo Harbor, pur essendo bella e invidiata, Marissa soffre profondamente.

La sua famiglia la ferisce continuamente. Il padre Jimmy, che lei considera l’unica cosa a tenerla sana di mente, è immaturo ed egoista. Marissa stessa gli chiede di “crescere e comportarsi come un vero padre”. Guarda ai Cohen come fonte di normalità e stabilità emotiva perché sono cose che mancano nella famiglia Cooper. Il rapporto con la madre è complicato, specialmente nella prima stagione. Cerca di far ricoverare la figlia in un istituto psichiatrico, ha una relazione con l’ex della figlia, sposa Caleb Nichol solo qualche mese dopo aver concluso il divorzio con Jimmy, Marissa viene ricattata da Caleb e sua madre cerca persino di allontanarla da DJ, il giardiniere.

Il rapporto altalenante con Julie sembra stabilizzarsi appena quando Marissa comprende che tutto ciò che lei ha fatto, anche se in modo contorto e subdolo, lo ha fatto per il bene della figlia, per “garantirle un tetto sopra la testa”.

Ma Marissa non ha mai avuto bisogno dei privilegi che derivano dall’eccessiva ricchezza, ma di una famiglia unita su cui poter fare affidamento.

La sua complicata situazione familiare e i continui tradimenti di Luke, e la poca o nulla autostima inducono la sua dipendenza da alcol e sostanze stupefacenti. Pian piano, Marissa precipita verso il baratro.

Scopriamo che la sua relazione col cibo è tutto tranne che salutare. Per la maggior parte del tempo mangia cibo spazzatura, hamburger e milkshake. Nella prima stagione veniamo a sapere che è stata anoressica e Summer si preoccupa che sia “troppo magra”.

Marissa cerca di nascondere il suo malessere sfoggiando grandi sorrisi e impegnandosi in eventi benefici (la sfilata della prima stagione ne è un esempio), ma è in realtà piena di insicurezze che la conducono a pensare di non potercela fare ad affrontare il mondo da sola.

Quando scopre dei tradimenti di Luke, confida a Summer di non avere nessuno. E il solo pensiero la spinge al limite, svenuta e in overdose in un vicolo di Tijuana.

Dopo il tentato stupro da parte di Trey, confessa ai suoi amici che non farà domanda per il college, perché si sente costantemente fuori posto ed è convinta che alcune persone siano destinate a perdersi.

Senza una direzione, convinta di non valere nulla, Marissa inizia una relazione malsana con Kevin Volchok.

Marissa tocca il fondo del barile perché pensa di essere così irrimediabilmente danneggiata da meritare niente di più che una relazione con Volchok. Stavolta non sta con lui per far dispetto alla madre come accaduto con DJ. Lo fa perché è convinta di non meritare di meglio.

E proprio quando inizia a vedere un barlume di speranza, proprio quando compie il primo vero atto d’amore verso sé stessa (guardare al futuro, chiudere con Volchok), viene uccisa.

È vero che la vita è imprevedibile, ed è vero che Volchok è un ex amante geloso e pericoloso, ma sembra quasi che The O.C. ci dica che l’unico modo per Marissa di essere veramente in pace con sé stessa fosse nella morte. Come se fosse impossibile immaginare una rinascita per chi è a pezzi, come se venisse punita per le sue scelte.

3. Tredici

13 Reasons Why inizia con la morte di una ragazza. Hannah Baker muore suicida dopo aver rinunciato a dare alla vita un’ennesima possibilità.

Accusata di aver glorificato il suicidio e di averlo presentato come una soluzione ai problemi della vita, la prima stagione di Tredici ha invece raccontato una realtà purtroppo comune e che è necessario evitare.

La violenza del suicidio di Hannah era necessaria e funzionale alla narrazione. Il dolore di Hannah nel momento in cui si toglie la vita deve essere duro da guardare, deve far comprende agli spettatori che il suicidio non è la soluzione, che la morte è brutta e difficile e lenta e dolorosa.

In qualche modo, però, il messaggio positivo della prima stagione della serie non ha trovato luogo nelle successive e le scene più grafiche – lo stupro ai danni di Tyler su tutte – hanno finito per non fare più da monito. Si sono trasformate in pornografia della violenza e spettacolarizzazione della sofferenza.

Questa deviazione nella modalità di narrazione della storia ha raggiunto il suo apice nel finale di serie con la morte di Justin Foley.

Fin da principio, la vita di Justin non è una passeggiata. Il ragazzo nasce e cresce in un ambiente di negligenza e violenza, con un padre assente, una madre tossica e i compagni di lei che non ci pensano due volte prima di alzare le mani sul ragazzo.

La prima persona che sembra curarsi di lui è il compagno più grande, Bryce Walker, che si rivela anche una delle fonti del suo malessere.

Nella prima stagione di Tredici, Bryce stupra Jessica, la ragazza di Justin all’epoca, e manipola lui affinché mantenga il segreto.

Inevitabilmente la salute mentale di Justin ne risente. Bryce lo costringe a scegliere tra la sua ragazza e l’unica famiglia che ha sempre avuto. Justin ha fatto affidamento su Bryce per tutta la vita. Lontano da casa, ha trovato un luogo sicuro grazie al ragazzo che si professa il suo migliore amico.

Ma la verità è che Justin viene messo all’angolo da una persona di cui si fida e che abusa psicologicamente di lui.

Il ragazzo, che già ritiene che la sua vita non valga nulla, è emotivamente distrutto non solo dall’ultimatum di Bryce, ma anche dalle sue conseguenze.

Rivelare quanto sa distrugge il suo rapporto, già danneggiato, con Jessica.

Uno spiraglio di speranza si apre per lui solo quanto i Jensen scelgono di prenderlo sotto la loro ala e di adottarlo. Anche se le cose non sono facili, anche se la dipendenza da eroina di Justin lo accompagna anche quando vive sotto il tetto della famiglia Jensen, il ragazzo inizia a vedere una luce in fondo al tunnel. Ma proprio quando tutto sembra volgere per il meglio, e Justin acquista gli strumenti per iniziare ad amarsi davvero, la vita lo punisce ancora una volta, come a volergli ricordare che per quelli come lui, danneggiati oltre ogni possibilità di guarigione, non c’è salvezza.

Il finale di serie abbandona il messaggio di speranza che chiudeva invece la prima stagione. Stavolta non c’è Clay a dirci che bisogna fare di meglio affinché non tutte le storie si concludano come quella di Hannah Baker. Stavolta la serie ci colpisce in pieno volto raccontandoci una storia come purtroppo ne esistono tante e finendo per dirci che per quanto un ragazzo come Justin – autodistruttivo, convinto di non essere meritevole d’amore, incapace di venire a capo del proprio dolore perché non gli vengono offerti gli strumenti per farlo – ci provi, il finale è inevitabilmente drammatico.

La premessa della serie è drammatica, ma narrare delle piccole e grandi delusioni che ci buttano giù e sono capaci di distruggerci doveva essere solo un pretesto per mostrarci che invece si può guarire, che per tutte le Hannah di questo mondo ci sono tante altre persone che ce la fanno e che possono sperare di farcela. E invece, la storia di Justin tradisce quella premessa, cadendo anche una volta nella retorica per cui la serenità per chi perde di vista la propria strada non esista in vita, ma solo nella morte.

4. Supernatural

Nel momento in cui lo incontriamo, Dean ci si presenta come un ragazzo spavaldo e sicuro di sé. Ma immediatamente dopo scopriamo quanto sensibile sia in realtà e quanta sofferenza nasconda dietro i sorrisi che sfoggia.

Costretto a crescere troppo in fretta, a fare da padre e madre al fratello minore, Dean ha cercato per tutta la vita l’approvazione di un padre assente che mai ha mostrato di essere fiero di lui e che lo ha caricato di responsabilità troppo presto, privandolo della sua infanzia.

Dean ha cercato di imitare John al meglio, per fa sì che si accorgesse di lui, assorbendo come una spugna gli atteggiamenti del padre: reagisce alla perdita come John, elabora il lutto come lui (“Ti comporti come papà”, gli dice Sam nella stagione 13), cerca di essere ciò che John desiderava e si convince col tempo di essere semplicemente lo strumento di suo padre, un soldato nelle sue mani.

John ha plasmato (o tentato di plasmare, perché Dean si rivela più simile a Mary che al padre) il figlio a sua immagine, finendo per causare una serie di problemi di autostima di cui Dean non si libera fino al penultimo episodio.

Anche se già nell’episodio 4.19 si scopre lontanissimo dall’uomo che tanto ha cercato di impressionare (“You know, I finally get why you and Dad butted heads so much. You two were practically the same person. I mean, I worshipped the guy, you know? I dressed like him, I acted like him, I listen to the same music. But you were more like him than I will ever be. And I see that now”), è solo grazie alle parole di Castiel se capisce finalmente di valere di più.

Quando Chuck lo definisce un killer e nulla più, Dean si riappropria finalmente della sua vita. Castiel gli ha insegnato che non è l’odio a guidarlo. E Dean inizia a vivere.

La parte iniziale dell’episodio conclusivo dello show ci mostra un Dean che cerca di andare avanti con la sua vita. Cerca un lavoro. Tenta di gioire delle piccole cose, come prendersi cura del suo cane Miracle o visitare una fiera. Non lascia che la morte di Castiel lo affligga come accaduto nella tredicesima stagione, non si lascia consumare dal dolore fino a mostrare desiderio di morte, ma è determinato a onorare il sacrificio di Cas e Jack.

Il Dean che ci troviamo di fronte nel finale non è più quello disposto a morire, quasi felice di farlo della tredicesima stagione. Non è più quello che annega nel proprio dolore, convinto che la sua vita non abbia valore.

E nonostante ciò, la sua vita finisce proprio quando si libera dal giogo di Chuck. Non appena ottiene qualcosa, la libertà tanto agognata, la vita di Dean si spezza.

Ancora una volta, sembra che il finale sia lo stesso di sempre: per alcune persone, semplicemente non può esistere un lieto fine che non sia nella morte. Perché è, di nuovo, questo il controverso messaggio che il series finale di Supernatural ci sbatte in faccia, mostrandoci Dean, finalmente sorridente e felice, in paradiso.

Dopo che Sam e Dean si liberano dalla narrativa di Chuck, l’episodio finale avrebbe dovuto porre enfasi sul loro libero arbitrio, sul potere che finalmente hanno sulle loro vite. E invece Dean ricade nei vecchi schemi, non fa scelte diverse (e quando le fa, come per la ricerca di un lavoro, non portano a nulla) e sembra convinto che sia impossibile smettere di cacciare, anche se nella tredicesima stagione afferma addirittura di essere stanco dei rischi che quella vita comporta ed esprime il desiderio di abbandonarla.

Can you imagine? You, me, Cas, toes in the sand, couple of them little umbrella drinks. Matching Hawaiian shirts, obviously. Some hula girls. (…) If I knew the world was safe? Hell, yeah. And you know why? ‘Cause we freaking earned it, man.

Aspettarsi di morire giovane non equivale a desiderare di andare incontro a un destino simile. E se all’inizio Dean non vedeva una via d’uscita dalla caccia che fosse diversa dalla morte, era compito della serie mostrarci che un modo c’era. Dean Winchester meritava di essere felice in vita, non nella morte.

Non è un caso che il pubblico abbia teorizzato che nel finale i Winchester non abbiano affatto vinto, ma che sia stato Chuck a trionfare, mettendo in scene un ultimo trucco (il che è stranamente confortante se pensiamo che potrebbe essere un punto di partenza e non un punto di arrivo e risponderebbe alle domande aperte di Carry On).

La morte di Dean e il finale di Supernatural in generale sembrano combaciare con quanto scritto da Chuck e aspramente criticato da Becky nell’episodio 15.04: “A story is only as good as its villain, and these villains are just not feeling very dangerous? Not to mention, there’s no classic rock. No one even mentions Cass. The climax is a little stale”.

E se a questo aggiungiamo quanto sappiamo sui piani originali pre-COVID per la conclusione dello show e sulla presenza di Jimmy Novak, ma non di Castiel nel paradiso di Dean, dobbiamo ammettere che non solo non si tratta di un happy ending, ma che la vita ultraterrena di Dean sarebbe dovuta apparire come direttamente uscita da uno dei progetti di Michael in The Good Place. Neppure a Sam viene conferito un finale dolce, perché piange la morte del fratello fino alla propria, come se la attendesse per sempre.

Come per Le terrificanti avventure di Sabrina, anche la scelta della morte dei protagonisti come conclusione dello show rientra nell’ambito della cattiva scrittura. È questo il meglio che gli sceneggiatori sono stati in grado di fare? In Supernatural la morte è stata ingannata innumerevoli volte (Castiel è morto 6 volte, Sam 8, Dean 111 – 103 delle quali per mano del Trickster) e perfino Jensen Ackles ritiene che non sia mai definitiva nello show.

È un finale che non funziona per svariate ragioni, ma la più importante resta la morte del protagonista, che non muore da protagonista. Il suo non è un addio eroico, il ragazzo non ha potere decisionale sulla propria vita. E se l’idea era di mostrarci che senza Chuck qualsiasi cacciatore, persino Dean Winchester, può morire in una lotta contro i vampiri e che la vita è imprevedibile e un incidente di percorso è sempre possibile, ebbene non era questo il destino a cui l’eroe della storia, il personaggio che più ha sofferto in vita, sarebbe dovuto andare incontro.

5. The 100

Il finale di The 100, un po’ come quello di Lost, è controverso, divide il pubblico e lo farà sempre. Ne sentiremo parlare a lungo perché ci saranno sempre gli spettatori che lo riterranno perfetto e quelli che non riusciranno mai a considerarlo un finale adatto.

I finali tragici esistono, esistono quelli agrodolci ed è giusto che ci siano. Il problema è quando il finale dei personaggi coincide nell’impossibilità di trovare pace in vita. E The 100 ha in parte fatto qualcosa di simile.

Pur se in maniera diversa rispetto alle serie finora analizzate, anche se Clarke alla fine sopravvivere sulla Terra con le persone che ama e anche se la serie ha mostrato che un’esistenza pacifica è possibile per qualcuno, The 100 si conclude con la maggior parte degli esseri umani, tra cui Madi, che scelgono di rinunciare ai propri corpi e alla propria vita sulla Terra per essere più felici e in pace in comunione con una coscienza universale aliena.

Ma è davvero un happy ending? Gli umani che hanno scelto di trascendere posso dirsi davvero felici? Continuare a esistere, rinunciando alla propria forma fisica per unirsi a una mente collettiva sotto le sembianze di energia luminosa può dirsi essere in pace? Esistere per sempre, senza sentire più dolore non equivale forse, da una prospettiva puramente umana, a morire? Seppure nelle intenzioni autoriali la trascendenza sia da intendersi come il passo successivo nell’evoluzione umana, l’idea che le persone sulla terra vengano giudicate da entità superiori degne o meno di trascendere a un piano diverso dell’esistenza dove il dolore non esiste e tutto è perdonato richiama alla mente la nozione di vita ultraterrena nell’aldilà.

CW tende spesso a scegliere il finale più tragico possibile e The 100 non fa eccezione. Il lieto fine per un’umanità che ha lottato a lungo per la sopravvivenza è ancora una volta una sorta di morte.

E per chi resta, per Clarke e le persone che ama, la felicità coincide con l’estinzione della razza umana. Perché chi ha scelto di non trascendere non rappresenterà una prima colonia umana che ripopolerà la Terra (un finale à la Maze Runner sarebbe stato perfetto per lo show), bensì l’ultima. L’umanità si estinguerà con loro, il che non è solo tragico e deprimente, ma anche in netto contrasto con la premessa dello show.

La serie raccontava della continua lotta dell’umanità per coesistere con gli altri sullo stesso pianeta e si conclude con il messaggio pericoloso per cui le cose vanno bene finché non esistono differenze e fintanto che non si è costretti a scendere a compromessi.

E forse, in questo caso, il problema della trascendenza e della vita felice e incorporea che sa tanto di morte, passa in secondo piano.

6. Arrow

Il viaggio di Oliver Queen aka Freccia Verde si conclude prevedibilmente con l’eroe che compie l’ultimo sacrificio.

Per proteggere la propria città, Oliver ha subito molte perdite, ma non ha mai smesso di lottare, finché, col crossover Crisi sulle Terre Infinite, è andato incontro al suo destino.

La sua morte rientra nella sfera del sacrificio dell’eroe di cui parlavamo prima. Oliver protegge la sua città e l’intero universo sacrificando la propria vita non una ma due volte dopo il suo ritorno nei panni di Spectre.

Quando Emily Bett-Rickards ha lasciato a serie nel finale della settima stagione, la sua controparte futura mostrata attraverso un flashforward è andata incontro a un misterioso finale.

Monitor dice alla Felicity del futuro che la porterà da Oliver, in un luogo da quale non potrà più fare ritorno.

Felicity accetta i termini del patto e attraversa un portale. La sua destinazione rimane ignota fino al series finale della serie.

Dopo il funerale di Oliver, veniamo catapultati nel 2040, al momento in cui Felicity accetta i termini dell’accordo fatto con Monitor.

Vediamo anche cosa accade dopo: la donna, nuovamente giovane, si ritrova nell’ufficio di Moira, dove rivede finalmente Oliver.

“Non per lamentarmi, ma non pensavo che l’aldilà somigliasse al tuo vecchio ufficio”, dice lei, rivelandoci che il portale l’ha portata alla morte. Era questo l’unico modo per rivedere l’amore della sua vita.

La similitudine con Le terrificanti avventure di Sabrina qui è evidente: come Nick, anche Felicity ha scelto di morire pur di rivedere il suo amato. Scegliere volontariamente di attraversare un portale che conduce alla morte equivale a togliersi la vita.

Il problema è che, ancora un volta, la scelta di morire è contornata da un’aura di romanticismo e il produttore Marc Guggenheim ha persino affermato che si tratta, a suo modo, di un lieto fine.

So che molti fan credevano che Oliver meritasse un lieto fine e per me va incontro a una versione à la Arrow di un lieto fine. Arrow è sempre stata una serie molto dark. E l’idea che ci fosse un tradizionale happy ending, con lui che viaggia verso il tramonto con la moglie e le figlie, sembrava poco adatto alle atmosfere dello show.

Ma qui il problema non è se il finale sia giusto per la serie o per il suo protagonista, il vero problema è il romanticizzare la morte allo scopo di ritrovare l’amore perduto.

7. L’esempio di Lost e perché l’afterlife funziona

Il finale di Lost ha creato una vera e propria spaccatura nel fandom, ma che la serie sia sempre rimasta fedele allo spirito che l’ha permeata fin dall’episodio pilota è innegabile.

Lost è sempre stata misteriosa e complessa, ma è anche e soprattutto stata una serie character driven, basata principalmente sullo sviluppo dei personaggi. Ed è attorno a loro che, ancora una volta, ruota il finale di serie, nel quale tutti i personaggi si ritrovano, dopo morti, in una chiesa che rappresenta l’aldilà, un luogo in cui ricongiungersi con le persone amate. Nell’afterlife Jack, Kate, Sawyer e gli altri ritrovano le persona che hanno fatto parte degli anni più importanti delle loro vite, quelli trascorsi sull’isola. Nell’aldilà nessuno è solo perché ciascuno dei naufraghi ha bisogno degli altri accanto.

Lost non ci racconta bugie, non ci dice che la morte è l’unica via per la felicità. È un racconto di persone, le cui vite si sono incrociate più di una volta in vita e che hanno percorso strade separate. C’è chi è tragicamente andato incontro a un infausto destino troppo giovane, chi ha vissuto una vita piena, soddisfacente e felice. Ma tutti loro alla fine si ritrovano in quella chiesa, non perché scelgano di congedarsi dalla vita terrena né perché sono troppo spezzati o troppo autodistruttivi per viverla. La morte non rappresenta qui l’unica via d’uscita dalla sofferenza, non la soluzione al dolore, non il solo modo in cui personaggi che lottano e sbagliano, tentano di rialzarsi e falliscono possono essere felici e in pace.

8. Lo strano caso di The Vampire Diaries

Anche se alcuni elementi del finale di The Vampire Diaries non hanno senso e non può certo definirsi lieto per molti personaggi, non possiamo negare che la serie abbia raccolto la lezione di Lost.

Il finale riservato a Elena e soci è senza dubbio ispirato a una delle serie che ha fatto la storia della televisione.

Elena ha vissuto una vita felice e umana con Damon, ha realizzato i suoi sogni ed è invecchiata con l’uomo che amava.

Alla sua morte, ha ritrovato Jenna, sua madre Miranda, il padre Grayson e perfino John.

Quando parliamo della mitologia di The Vampire Diaries, la nozione di pace è strettamente legata a quella di famiglia.

Il produttore Kevin Williamson ha detto a Bustle:

Chiunque abbia sofferto il dolore della perdita sa che è importante sapere e credere che le persone che ci hanno lasciato sono sempre al nostro fianco. Vivono dentro di noi, vivono attraverso di noi, ci guidano, influenzano le nostre azioni, ci hanno creato e ci restano accanto.

Secondo Williamson, ed è qui che le cose si complicano, l’idea del finale era quella di mostrare che la pace può essere raggiunta ricongiungendoci con le persone care che abbiamo perso.

Con la distruzione dell’Altro Lato, una sorta di purgatorio nell’universo di The Vampire Diaries, Williamson e la co-creatrice Julie Plec hanno voluto introdurre “l’idea della pace, che può essere raggiunta da chiunque nell’aldilà. L’idea che chiunque possa essere perdonato e trovare pace”.

L’implicazione qui è che il perdono, l’espiazione non possano essere raggiunti in vita. Eppure, una serie come Angel, basata sui concetti di colpa, pentimento, punizione ed espiazione e fonte d’ispirazione per TVD, ci ha mostrato che la redenzione è possibile. Se le colpe di Wesley, Lindsay, Lilah vengono sì punite con la morte, il percorso del personaggio principale dimostra che la contentezza o qualcosa che le si avvicini può esistere anche in Terra e che non si deve mai smettere di cercarla.

Secondo Williamson, la cui visione si avvicina evidentemente a una prospettiva tipicamente religiosa, i personaggi di The Vampire Diaries “sono finalmente liberi di respirare ed essere felici” nell’aldilà.

Ma perché non raccontare di come sia invece possibile trovare un briciolo di quella pace anche in vita? Perché non mostrare che sentirsi in pace con sé stessi, con le proprie scelte e con chi gli è restato accanto in vita è un diritto che i protagonisti di The Vampire Diaries non solo si erano da tempo guadagnati, ma che hanno sempre avuto fin dalla nascita?

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Pubblicato da Giulia Greco

Geek. Il caffè è la mia droga, serie TV, film, libri, anime, manga la mia passione. Classe '89, sono cresciuta andando a caccia di vampiri con la Scooby Gang e passeggiando tra le vie di Stars Hollow con le testa tra le nuvole, un po' come Luna Lovegood.

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